Messori nell’arco della sua intera carriera di costruttore realizzò solo 120 telai, tutti pezzi unici e originali. Oltre alle estrema qualità e originalità delle sue bici, una delle caratteristiche estetiche e funzionali che distinguevano tutti i telai Messori era la cromatura sotto alla vernice impiegata per preservare il telaio dall’ossidazione. Costruì telai anche per altri marchi del modenese come Luciano Paletti
Messori si dedicò alla fase di lavorazione di ogni singolo telaio, dall’ideazione, all’applicazione delle decals.
Per caratterizzare i telai Rivola, Chiesa fu il primo a ideare e perfezionare gli attacchi dei forcellini a “coda di rondine“, in breve tempo poi imitati da altri telaisti della zona e del nord Italia, nel modello Rivola Superleggera gli attacchi sono ulteriormente alleggeriti con un foro.
La particolarità del primi modelli prodotti negli anni 30 è la mancanza della scritta Campagnolo su entrambe le facce della zona in cui si afferravano le bacchette , modello non disponibile, per ora
Wilier Triestina nasce nel 1906 con il nome di Wilier, grazie all’idea di un commerciante bassanese, Pietro Dal Molin, di costruire in proprio biciclette. La sua fucina di “cavalli d’acciaio” sorge come un piccolo laboratorio sulle rive del Brenta, a Bassano del Grappa, e il suo successo aumenta di pari passo alla sempre maggior richiesta di biciclette.
Per questo motivo Dal Molin decide di allestire una squadra professionistica capitanata dal triestino Giordano Cottur, noto per essere succeduto nella Bassano-Monte Grappa per dilettanti nientemeno che a Gino Bartali.
Nello stesso periodo sull’onda del sentimento popolare di apprensione per le sorti di Trieste, Dal Molin decide di associare al nome della sua azienda quello della città giuliana.
Il primo e l’ultimo se li ricordano tutti; il secondo e il penultimo se li ricordano solo loro, anche se forse vorrebbero dimenticarselo; dal terzo al terzultimo non se li ricorda nessuno. Per questo ho lottato per arrivare ultimo. (Oscar Gatto, maglia nera al Giro 2007)
Era nato il 22 di giugno del 1920, un secolo fa, Luigi Malabrocca corridore alessandrino di Tortona soprannominato il cinese per i suoi occhi a mandorla
L’accostamento della maglia nera all’ultimo in classifica si deve a un calciatore.Giuseppe Ticozzelli faceva di professione il difensore, ma amava ogni tipo di sfida in modo piuttosto viscerale. Nel 1926, per esempio, decise di correre il Giro d’Italia. Lo fece indossando la maglia del Casale, la sua squadra dell’epoca, che era per l’appunto nera. Ticozzelli riuscì a concludere solo tre tappe del Giro, ma si distinse, anziché per le prove atletiche, per il modo in cui partecipava alla gara. Arrivava al via sempre all’ultimo momento, spesso accompagnato in taxi, poi partiva a razzo per fughe tanto folli quanto brevi. Infatti Ticozzelli si fermava ben presto in qualche trattoria a mangiare e riposarsi, incurante del risultato finale .ma sarebbe bastato a segnare per sempre la storia del frasario sportivo italiano.
foto web
La conquista della maglia nera divenne, nei Giri d’Italia del dopoguerra, una competizione con tanto di premi: damigiane di vino e olio, maialini, quadri d’autore, qualche soldo. Essere ultimi poteva rivelarsi un affare: Ciro Verratti, inviato storico del Corriere della Sera, scrisse nel ’49 che la maglia nera “è nata per ridere, ma sta diventando una cosa seria”.
In effetti l’umiltà e la tenacia messe in mostra dall’ultimo in classifica ricalcavano esattamente quelle che erano le qualità di un Paese che provava a rialzarsi: l’Italia di De Gasperi era piena di speranze e povera di tutto il resto. E allora sulle strade della penisola, da Nord a Sud, si inneggiava -certo – a Coppi e Bartali, ma pure a Carollo e Malabrocca.
Al di là dei titoli conquistati, basti un aneddoto: alla fine degli anni Trenta fu Pavesi a scoprire il dilettante Fausto Coppi e a lanciarlo come gregario del già affermato Bartali, dando il via alla lotta tra campioni che divise e appassionò l’Italia.
Dagli anni Trenta agli anni Sessanta, mentre il ciclismo diventava lo sport più popolare del Paese e la squadra corse mieteva un successo dietro l’altro, la Legnano costruì alcune tra le più belle biciclette mai viste. In città non mancavano fonditori, tornitori, artisti della saldatura e tecnici capaci. Chi alla Franco Tosi poteva costruire un sottomarino come l’Archimede, nel capannone poco più in là era in grado anche di fare una bicicletta come si deve. Solo per restare ai mezzi da gara, negli anni Cinquanta nello stabilimento che si affacciava su via XX Settembre furono costruiti capolavori assoluti come i modelli Roma: leggerissimi, velocissimi, equipaggiati con la componentistica migliore e curati in ogni dettaglio.
Nell’epoca del tutto carbonio provate a mettere una Roma del 1956 di fianco a un top di gamma di oggi, la differenza salta all’occhio: nel 2019 le biciclette sono tutta tecnica, anche il colore spesso serve per contenere il peso; mezzo secolo fa invece c’era ancora spazio per il bello fine a se stesso, e così ecco che sui telai delle bici che vincevano spiccavano cromature e filetti rossi, mentre lo stemma del Guerriero sbalzato in ottone svettava in campo bianco.
Il verde Legnano merita poi qualche riga a parte: c’è chi sostiene sia un colore a sé, in verità era il risultato di un trattamento complesso. I telai erano verniciati d’argento e poi ricoperti di tante mani di verde trasparente fino a che prendevano la caratteristica colorazione ramarro. Ecco perché a distanza di decenni oggi è difficile trovare due biciclette Legnano che abbiano lo stesso colore.
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