Volava. Che andasse come una moto, lo si era capito subito: primo in una tappa e in una semitappa del Gran premio ciclomotoristico, che si faceva pedalando (in parte) nella scia di una moto.
Volava. Che andasse come un treno, lo si era visto già: primo nel Trofeo Tendicollo Universal, una gara a cronometro, anzi, la gara a cronometro, anzi, il campionato del mondo a cronometro.
Volava. Che fosse il più forte in una grande corsa a tappe, lo si scoprì al Giro d’Italia: primo nelle due tappe a cronometro, primo in una tappa con arrivo in salita, primo in una tappa alpina, primo nella classifica generale.
Volava. Che fosse il più forte anche nella corsa di un giorno, un giorno che valeva un anno, e un anno che sarebbe valso una vita, lo si ammirò al Mondiale di Reims: uscì allo scoperto quando al traguardo mancavano 250 km, e arrivò da solo.
Era il 1958, ed Ercole Baldini, volando, sembrava imbattibile. Un anno magico, felice, vincente. Un anno verde oliva (la maglia della Legnano), rosa, iridato e anche tricolore, perché si laureò pure campione italiano. Un anno irripetibile e indimenticabile. Tant’è che sabato 10 novembre, a 60 anni di distanza, Ercole Baldini lo ricorderà ancora. Celebrandolo con familiari e amici, colleghi e appassionati, autorità e sportivi.
È un signore del ciclismo, Ercole Baldini (e non c’è modo di separare il nome dal cognome, o forse il cognome dal nome, un tutt’uno). Ottantasette anni, la vista annebbiata ma la memoria lucida, la battuta pronta, la voglia intatta, la generosità manifesta, con estrema modestia Baldini sostiene che nel ciclismo fu soltanto una meteora: “Poi non mantenni le promesse, le attese, gli obiettivi. Facevo sempre più fatica e sempre meno risultati”. Il 4 novembre 1964 partecipò al Trofeo Baracchi, cronocoppie che aveva già vinto con Fausto Coppi (1957), Aldo Moser (1958 e 1959) e Joseph Velly (1961). “Stavolta in coppia con Vittorio Adorni: secondi dietro a Gianni Motta e Giacomo Fornoni, ma davanti a Tommy Simpson e Rudi Altig. Mica male. Comunque decisi che era arrivato il momento di smettere”. Aveva 31 anni: un’età in cui la maggior parte dei campioni può ancora raggiungere l’apogeo del suo rendimento, quando la conoscenza mentale allarga i confini fisici, quando la maggiore resistenza compensa la minore esplosività.
Lo chiamavano “il treno di Forlì”. Poi, di successo in successo, il treno fu promosso a “elettrotreno”, “diretto”, “direttissimo” ed “espresso”. Oggi sarebbe “pendolino”, “Frecciarossa” o “Tgv”. “La cronometro, in pianura, era il mio forte. Mi appiattivo sul telaio, spingevo un padellone, aprivo il gas, poi stantuffavo e mulinavo. Il mio avversario era Jacques Anquetil, la classe, il talento, l’eleganza e la nobiltà allo stato puro. In sella aveva una posizione perfetta, un’opera d’arte, da scultura più che da manuale. Di Anquetil si diceva che, se gli fosse stato appoggiato un calice di champagne sulla schiena, alla fine di una cronometro non ne avrebbe fatto uscire neppure una goccia”. In bici, a cronometro, Anquetil era il dio del tempo. “L’impresa di batterlo mi riuscì in cinque occasioni: quattro a Forlì, nel Gran premio Tendicollo Universal, una nella Blain-Nantes al Tour de France”. La corsa di Forlì, dove Ercole Baldini giocava in casa, ha una storia particolare: “Afro Gavelli, che era mio amico, mi chiese se Anquetil fosse proprio invincibile. Gli risposi di no, nessuno è invincibile, neppure Achille lo era, figurarsi Anquetil. Ma Anquetil era battibile solo a patto di trovare un percorso piatto, pianeggiante, liscio, con lunghi rettilinei e meno curve possibile. Gavelli mi accontentò, e inventò una corsa lunga 97 chilometri e diritta come un’autostrada”.
La cronometro non è solo forza e potenza, non è solo posizione e ritmo, non è solo gambe e testa, ma è anche sensibilità e poesia: “Se il fondo è liscio – sostiene Baldini – si sente la gomma che canta”. Al suo primo Giro d’Italia, quello del 1957, nella cronometro di Forte dei Marmi, il debuttante Ercole Baldini sentiva la gomma cantare e andò così forte da mandare fuori tempo massimo una sessantina di corridori. La giuria, elastica, d’accordo con gli organizzatori, disperati, fu costretta ad allentare il limite, troppo stretto con un fuoriclasse così potente, e restituì i 60 corridori alla corsa.
Ercole Baldini ha attraversato, anche se in soli otto anni di professionismo, un’epoca che custodiva l’eredità del ciclismo eroico (“Eberardo Pavesi, il mio direttore sportivo alla Legnano, predicava l’astinenza sessuale. Lo provai sulla mia pelle. E devo ammettere che aveva ragione”), aveva ancora il profumo del ciclismo romantico (“Ero in bici, mi stavo allenando, quando incrociai Fausto Coppi. Lui era Coppi, io nessuno. Lo inseguii, lo raggiunsi, mi incollai alla sua ruota. Una questione di rispetto. Finché lui se ne accorse e mi chiese di mettermi di fianco a lui, per proteggerlo da auto, camion e tifosi”), conservava il dono della semplicità anche nel momento del trionfo (“Giro d’Italia 1958, tappone alpino, da Levico Terme a Bolzano, 200 chilometri con la maglia rosa e un morale di ferro, a pochi chilometri dal traguardo mi si affiancò l’ammiraglia della Legnano e Lupo Mascheroni, il meccanico, mi urlò: ‘Sta’ attento, la pista è in terra’. Gli risposi: ‘E che cosa credevi, che fosse in cielo?’. E vinsi anche quella tappa”). cit\Il Foglio
Andai a trovarlo pochi mesi fa ma non era in forma